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PAOLO FIORENTINO, “OPERE SU CARTA”
dicembre 2001 - gennaio 2002
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Intorno alla testa
Appunti sulle opere di Paolo Fiorentino

  "Faceva le teste per un grosso l'una e ne faceva tre al giorno"
                                                                Giovanni Baglione


Teste dipinte...

Pittore di "capocce". Così alla fine del Cinquecento il Cavalier d'Arpino aveva soprannominato quel ragazzo giovane e impertinente che veniva dalla Lombardia per cercare fortuna nella città dei Papi, e si era presentato nella sua bottega vantando la sua abilità nel ritratto. Una capacità non millantata ma reale, come aveva avuto modo di constatare in breve tempo, che aveva permesso a quel Michelangelo Merisi di guadagnarsi un posticino nell'affollata bottega del Cavaliere, proprio come "pittore di capocce", pagato a cottimo, un tanto per ogni testa. Se il Cavaliere aveva capito che il suo talento andava molto al di là dei volti di santi e madonne che il giovane realizzava per lui con pochi colpi di pennello, forse lo avrebbe tenuto a bottega più a lungo.
Ma Caravaggio non poteva fermarsi: di là a qualche anno, le sue "capocce" avrebbero fatto tremare vescovi e cardinali, alla faccia dello spocchioso Cavaliere.

...e teste disegnate
Da quando Caravaggio dipingeva le sue inquietanti "capocce" sono passati ben quattro secoli, e oggi gli artisti non hanno più bisogno di dimostrare di saper maneggiare pennelli e colori per trovare lavoro nelle botteghe di antiquati e ottusi maestri, come alla fine del Cinquecento. Ma le "capocce" non sono passate di moda, come dimostrano gli ultimi lavori di Paolo Fiorentino, esposti in questa mostra. Sei grandi disegni a matita su carta con interventi a pastello, incentrati sul rapporto tra la testa umana e l'architettura: un'ulteriore prova della capacità dell'artista romano di interpretare la tradizione classica in chiave apparentemente monumentale ma in realtà ironica, sottolineata dai titoli dei singoli lavori, senza però rinunciare al portato simbolico di un elemento come la testa, denso di riferimenti che affondano nella storia stessa dell'arte come rappresentazione del mondo.

Intorno alla testa
"La testa rappresenta in generale l'ardore del principio attivo. Esso comprende l'autorità del governare, dell'ordinare, dell'istruire": così recita uno dei più noti dizionari di simboli, curato dagli studiosi francesi Jean Chevalier e Alain Gheerbrant. Una definizione ricca di sorprese, molte delle quali facilmente riconducibili alle opere di Fiorentino. Secondo Platone, la testa umana è paragonabile all'universo per la sua forma a sfera, un microcosmo di significati che convergono verso l'idea di unità e di perfezione , legata al concetto di divinità. Nel mondo celtico invece rappresentava anche la forza e il valore guerriero dell'avversario, che si aggiungevano a quelli del vincitore; solo la decapitazione garantiva infatti la morte effettiva dell'avversario. Presso gli antichi romani la testa era un amuleto portafortuna: Pierre Grimal racconta che sotto le fondamenta di un tempio dedicato a Giove fu rinvenuto un cranio di dimensioni eccezionali, e lo interpretarono come un segno della futura grandezza di Roma, destinata a diventare "caput mundi", la testa del mondo.

Teste metafisiche
"Arte divina, base di ogni costruzione plastica, scheletro di ogni opera buona, legge eterna che ogni artefice deve seguire". Nel suo celebre testo "Ritorno al mestiere", Giorgio De Chirico celebra i meriti del disegno rispetto alla pittura, riprendendo concetti già presenti nelle "Vite" di Giorgio Vasari. Sulla scorta delle teorie enunciate dal vate della metafisica, negli anni venti il disegno torna ad avere un ruolo da protagonista nella produzione di molti artisti: ruolo puntualizzato con la "Mostra permanente e valorizzazione del disegno italiano", promossa nel 1926 dalla rivista fiorentina "Il Selvaggior" Un.iniziativa alla quale aderiscono personalità come Mino Maccari, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi e Carlo Carrà.
Molti di loro ci hanno lasciato intense "capocce" eseguite con pochi tratti di matita, come la "Testa di uomo di profilo" (1929) di Marino Marini, la "Testa di fanciulla" (1920) di Arturo Martini, la "Testa di bambino"(1921) di Carlo Carrà e la "Testa di donna" (1929) di Giorgio Morandi. Teste di evidente matrice classica, che assumono però tratti orientaleggianti nella fanciulla di Martini, più marcatamente realistici in Carrà, sobri e puri nella donna di Morandi.

Teste in mostra
Sul filo di una solida tradizione di rivisitazione del classicismo che attraversa tutto il Novecento italiano non solo nella pittura, Paolo Fiorentino presenta sei grandi "disegni di capocce". Una scelta coraggiosa ma consapevole, che ripropone in maniera sobria ma determinata un soggetto che si presta, come abbiamo brevemente accennato, ad una lettura che unisce forma e contenuto. Questi elementi isolati, che emergono maestosi dalla superficie cartacea, possiedono la delicatezza del disegno che non precede , come di consueto, la pittura, ma diventa pittura, costruita su magici equilibri tra chiari e scuri, luci ed ombre: un'"arte divina". Sono opere che confermano quanto l'arte figurativa di qualità come è quella di Fiorentino sia ancora in grado di trasformare soggetti che appartengono alla storia dell'arte in visioni simboliche , capaci di fondere in maniera indissolubile tradizione e modernità, secondo l'illuminante lezione del "pictor optimus".
                                                                                     Ludovico Pratesi

MA DOVE CE L'HAI LA TESTA?
Dialogo con Paolo Fiorentino

...Il viso, invece, era una specie di maschera: lungo, scuro, con dei grandi occhi. Gli occhi erano vuoti, come in una maschera, ma se li guardavo per un pò sembrava di vedere una donna vera, viva. Per me era così, perlomeno.
(Jean Rhys  Addio, Mr Mackenzie)

Entri nel suo studio e sei circondata dalle teste. Cartoline, foto, frammenti, strani oggetti, cose appese qua e là. Occhi che ti fissano, smorfie, sorrisi, malinconie: volti classicamente atteggiati,  ma anche bizzarri come maschere.
Ti accorgi poco dopo che Paolo Fiorentino ha con queste teste un rapporto esclusivo. Negli ultimi tempi infatti sono i volti il tema dominante della sua pittura. Sorprendente. Paolo è infatti un artista che ha sempre prediletto l’architettura. Ha voluto interpretarla, inventando luoghi dello spirito dentro spazi a volte chiaramente riconoscibili, ma è sempre restato fedele all’idea della veduta, per quanto immaginaria. Con il suo dipingere ci aveva abituato a vagare per città abitate solo da ombre. Luoghi che, con il passare del tempo, sono diventati sempre più sintetici. “Ho avuto bisogno di levare, di semplificare. Sentivo l’esigenza di eliminare il superfluo. I miei edifici si sono trasformati in una sorta di scatole, senza aperture né finestre. In queste città non c’è stata da parte mia nessuna volontà descrittiva”, mi dice di fronte ai quadri di qualche anno fa. E le ombre? Sono un modo per alleggerire i volumi? “Si. Tolgono peso, creano movimento, interrompono la staticità dell’insieme”. E’ vero, mi dico, tolgono peso e, nello stesso tempo, aggiungono mistero. Mi immagino storie interpretate da angeli, spiriti votati alla protezione di questi posti incantati , come fossimo in un “cielo sopra Berlino” finalmente colorato dalla mano di un visionario che intrattiene colloqui segreti con l’antichità. “Mi piace riferirmi alla tradizione della pittura italiana – chiarisce Fiorentino – ma il mio intento è proprio quello di attualizzarla, di filtrarla in modo personale, contemporaneo”.
In questi grandi, bellissimi disegni Paolo non rinuncia alla sua fantastica architettura. La cita, dentro edifici inventati che accompagnano le sue gigantesche teste. Così mi è venuto in mente quel dipinto di Camille  Corot che raffigura una giovane donna seduta in un interno. Lo guardi e pensi che non può essere del maestro francese: è così diverso dagli altri. Finché lo sguardo non si posa sul quadro abbandonato sul cavalletto che sta accanto alla fanciulla: un bellissimo paesaggio di Corot. E allora tutto si illumina, si chiarisce: i verdi e i bruni dell’abito, la luce, persino il volto della donna. Ma come ho fatto-ti chiedi a quel punto-  a dubitare che fosse suo?
 Così guardiamo Bello de’ nonna. E ci accorgiamo che, come direbbe il principe di Salina, tutto cambia perché nulla cambi. La testa e quella sorta di torre-battistero che le sta a fianco sono fatti della stessa materia. Immediatamente vengono in mente i disegni con cui gli antichi maestri del Rinascimento indagavano le proporzioni, creando una similitudine tra il corpo umano e le architetture. Ma ciò che colpisce è proprio il modo in cui Paolo avvicina i due elementi, li accomuna in un identico destino. “Tratti le tue teste come se fossero architetture? – gli chiedo. “Sono volumi” mi risponde ineffabile. E infatti la loro fascinazione deriva da quel modo particolare di occupare e nello stesso tempo creare spazio.  Senti l’aria che gli gira intorno, ti sembra di poterne toccare il retro, quasi li vedi uscir fuori dal foglio, ne senti il peso. Miracoli della matita, del chiaroscuro, degli accordi di ombre e luci. 
Ora, questo disegno dove Paolo ha raccolto tutto il suo repertorio figurativo in una nuova architettura che un giorno - siamo certi - riconosceremo da qualche altra parte, si chiama appunto Bello de’ nonna. Ed è inutile tentare interpretazioni di conflitti psicoanalitici, tipo la nonna che sostituisce la madre ecc. ecc. Bello de’ mamma Paolo lo aveva già disegnato. D’altra parte – e l’ho sempre pensato - la pittura di Fiorentino è proprio la negazione del contrasto. Qui tutto appare risolto in un trionfo di Armonia, in un accordo tra “spirito e materia, anima e corpo”, per usare le sue parole. C’è magari la percezione dell’assenza, ma mai quella della perdita, capita anche di  sentire uno struggimento, una malinconia, sicuramente l’idea di un turbamento, ma non vi si potrà mai cogliere qualcosa che lotti, si scontri con un elemento nemico. Mai nulla che strida. Fiorentino all’espressività che grida ha sempre contrapposto l’eloquenza del silenzio.
Mute, immobili con i loro occhi neri, abissi di vuoto, le teste di Fiorentino, tuttavia, si esprimono. Ed è paradossale che lo facciano proprio attraverso il loro buio sguardo. Sono tutte diverse tra loro per un leggero atteggiamento della bocca, ma soprattutto per i loro occhi privi di pupille. Di cosa ci parlano, o meglio sussurrano, questi individui di pietra dalle corna vegetali, dai capelli che si confondono con la vegetazione degli alberi, dalle teste decorate?
“Sono aspetti dell’anima” mi dice Paolo con un po’ di ritrosia. Non credo gli piaccia molto intrattenersi sui significati. Non a caso ha chiamato queste carte in modo così bizzarro. Apinoo  sbeffeggia l’Antinoo classico. E poi c’è Cornelius che ha davvero le corna, I narcisi specchianti sugli edifici. Giggio (naturalmente con due gi ), Nuvola rossa, un nome da capo tribù, Zzoro con la zeta sulla fronte.  E Lillo e Lalla, stupefacenti con quel fondo rosso.
 Un rosso romano che evoca l’autunno,  - mai sangue, né fuoco, perché Fiorentino lo utilizza smorzandone i toni, avvezzo com’è a non concedere nulla all’eccesso. “Sono titoli che servono a sdrammatizzare. Non amo prendermi troppo sul serio”. Capisco. Ma nello stesso tempo, dopo la visita al suo studio, continuo a pensare a quelle opere. I titoli me li sono dimenticati, ma quella costellazione di teste continua a rimbalzare nella mia. Ognuna di loro esprime, senza enfasi, un differente stato d’animo. Ed ecco che cerchi di cogliere quei cambiamenti impercettibili, ti concentri sui moti della psiche acquattati nel fondo di pupille scomparse.  Non pensi ad altro per un po’. Come succede con le cose serie. Quelle importanti.
“Perché non le dipingi queste teste? Perché le disegni e basta?”, gli ho chiesto, prima di accorgermi di un olio su cui era già abbozzato un volto in primo piano. Ma mentre lo dicevo sapevo che non era poi così rilevante. Queste matite di Fiorentino non sono bozzetti, non sono nate per subire una trasformazione che le veda trasferite con pennelli e colori sulla tela. Sono opere compiute, autonome. E infatti ognuna di queste carte ha una serie di disegni preparatori, prime intuizioni poi tradotte definitivamente. In un modo perentorio, risoluto, che ne rivela tutta la potenza. Come fossero idoli indistruttibili di una contemporaneità ancora da venire.
novembre 2001       
                                                                Lea Mattarella